“La guerra è la dimostrazione che l’uomo, in quanto essere pensante e senziente, ha fallito, ha subito una sconfitta”
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“Ma era precisamente quello che non riuscivamo a fare. Né allora, né in seguito. Non eravamo capaci di immaginare la guerra. Ci guardavamo intorno: il bosco stormiva, il vento trasportava un bianco pulviscolo nevoso, nella radura silenziosa si udiva solo lo scricchiolio dei nostri scarponi sulla neve. La nostra immaginazione era incapace di raffigurarsi una scena di terrore e di lotta. Non eravamo in grado di evocarne nemmeno la più vaga e confusa visione: massacri collettivi, stridore di ossa scheggiate dalle baionette, brandelli umani in mezzo a pozze di sangue appiccicoso. Non vedevamo che il bosco, la radura e la neve. Niente altro“.
Ryszard Kapuscinsky – Giungla Polacca
La Slovenia alle spalle, siamo entrati in Croazia finalmente diretti verso una meta tanto agognata: il Parco Nazionale di Plitivice. Lasciata la tranquilla E 71 alle spalle, abbiamo preso la 42, una strada di campagna da percorrere lentamente e con i finestrini abbassati. I profumi della campagna di giugno ci hanno presto inondato: profumo di pioggia che evapora sotto il sole, di erba recisa e di fiori di campo.
I Croati hanno un vero e proprio culto per gli orti, tutti ordinatissimi e sempre circondati da fiori e da recinzioni artigianali. C’è sempre qualcuno nell’orto, a tirare erbacce, a scavare buche per le nuove piantine, a rimuovere rametti di troppo, a vangare, spesso sono donne con il fazzoletto in testa. A tagliare l’erba si occupano uomini con falcetti a mano in un gesto lento ed equilibrato che mi porta alle belle pagine de “La Via Incantata” di William Blacker. In qualche modo sembra di aver fatto un salto nel tempo passato, tale è la dolcezza dei paesaggi, i gesti lenti, la mancanza di altre auto sulla strada.
“Ferma Gianni, ferma!” C’è qualcosa di strano su quel traliccio della luce. Oddio proprio all’ingresso del paesello di Plaški, di fronte ad una casetta con un giardino ricolmo di fiori, due cicogne hanno scelto di fare lì il proprio nido. Scendiamo dall’auto e restiamo a lungo a guardarle, loro si affacciano curiose di vedere quegli sfacciati che gli piantano gli occhi addosso, ma da quando vivono in paese si sono abituate ai curiosi.
Rientrando in auto mi dico che questo incontro dà un sapore ancora più fiabesco a queste campagne. Ma proprio mentre ripeto questi pensieri a Giovanni, non possiamo fare a meno di notare una serie di edifici malmessi. Una chiesa in rovina, una scuola abbandonata, troppe case con i tetti sfondati. Ma quelli su quella casa non erano buchi di proiettile?
Ed allora soltanto ci è stato chiaro che tutte quelle case di mattoni rossi non intonacati sono case in cui i Croati stanno tornando, che i tetti erano stati sfondati dalle bombe, solo allora in un lampo ci ricordammo della guerra. Fossimo stati diretti in Bosnia o Serbia ci sarei arrivata “preparata”, ma nella mia testa la Croazia è quella nazione dal mare splendido, da visitare in barca a vela, ed avevo più o meno inconsapevolmente allontanato ogni collegamento con la guerra dell’Ex-Jugoslavia di 25 anni fa. La pace dintorno, la campagna bella rendeva ancora più stridente e brutale il contrasto.
Troppo difficile immaginare una guerra qui, a real nonsense direbbero gli inglesi. Come si può sparare, bombardare case e casette isolate immerse nel verde, piccoli paesini senza alcun obiettivo strategico? In realtà le guerre non hanno mai un senso.
Più tardi nei boschi avremmo incrociato piccoli memoriali dedicati ai caduti, con i lumini ancora accesi, i fiori freschi appena cambiati. Ragazzi di 18-20 anni che qui in questi luoghi di pace hanno lasciato la vita per la follia di altri.
Anche 15 anni dopo, la guerra è una realtà difficile da mandare giù.
Dragana, la nostra ospite a Plitvice ci racconterà di essere venuta via dalla sua terra perché i genitori capirono subito che era meglio mettersi in salvo a Zagabria. Hanno abbandonato le loro belle case, i loro poderi ed orticelli, per vivere in un campo di rifugiati e per 15 anni non sarebbero più tornati. Non è facile tornare a vedere la tua casa completamente distrutta. Dragana non ha visto la guerra, era una bimba e ci dice di essere grata di quella sua esperienza: ha vissuto in una comunità di persone, un’esperienza che ti segna per sempre perché in un’epoca individualista ti dona il senso della collettività. Ama intrattenersi con noi a parlare “la condivisione delle esperienze” fa parte del suo essere.
È stato solo qualche anno fa che hanno deciso di tornare, i suoi genitori e lei e suo marito. I primi a ricostruire la vecchia casa di famiglia, i secondi a costruire una casa nuova.
La casa dei genitori di Dragana è una delle tantissime costruzioni tutte in mattoni rossi non ancora intonacati e con le tende alle finestre, i vasi di fiori ai davanzali. Sono queste case quelle che mi fanno più tenerezza persino di più di quelle bombardate e diroccate, perché sono ricostruite ma non finite, quasi a non voler dimenticare che la guerra è passata di qui. Ho persino pudore a scattare foto. Sono un monito a che la follia non si ripeta mai più.
Ricordo lo sgomento provato quando, uscendo dalla Slovenia, mi son trovata proiettata nei palazzi devastati dalla guerra, a Pula. Come dici te, è impensabile ciò che è successo a pochi chilometri dal confine italiano..
Esatto si tratta proprio di quello sgomento. Non so tu, ma il paesaggio magico, l’atmosfera che regnava, quel “light-feeling” che accompagna ogni viaggio….eravamo mille miglia lontani da pensieri di guerra e questo ha aumentato lo shock!